Alberto è il papà di un bambino dolcissimo di quasi due anni. Nella sua giovane famiglia nulla fino ad ora ha mai messo a repentaglio la serenità di un clima familiare che potesse interferire con l’equilibrio psicofisico del piccolo Andrea. Sta di fatto che Alberto si interfaccia con la pedagogista perché, frustrato da un recente comportamento esplicitamente di rifiuto di Andrea nei suoi confronti, chiede aiuto. Crede di non essere all’altezza e crede che la relazione che Andrea ha con la madre sia privilegiata da suo figlio.
È vero che la mamma ha costruito una relazione esclusiva con Andrea, lavoro naturale ed esemplare poiché i primi due anni di vita il bambino è in simbiosi con la figura materna, ma nella vita di un bambino quando è presente, esiste il padre con cui nasce e si sviluppa una relazione rilevante ed indiscussa. In questo caso il piccolo Andrea ha goduto sempre della presenza del suo papà accanto a sé.
Ma allora, cosa è accaduto tra padre e figlio?
Negli ultimi sessant’anni la definizione di funzione paterna è mutata, dato accertato dalla letteratura pedagogica: fino a pochi decenni fa la figura del padre non compariva nella maggior parte delle teorie e degli scritti relativi alla primissima infanzia. Infatti, lo studio dello sviluppo infantile era focalizzato sull’analisi della coppia madre-bambino e, solo a partire dagli anni ’50, l’analisi scientifica sullo sviluppo infantile ha aperto il campo di ricerca al ruolo paterno.
Al percorso scientifico che analizza tale ruolo, si affianca passo dopo passo l’analisi del rapporto padre-figlio. Ed è questo che desta il nostro interesse: il papà deve essere consapevole di valere qualitativamente nella crescita di suo figlio anche se piccolissimo. È assolutamente necessario che il papà consapevolizzi la sua qualità educativa ed edificante.
Come traduciamo questa valore qualitativo nel caso in esame?
L’anamnesi pedagogica ci rivela che Alberto “papà” ha delegato totalmente i momenti esplicativi di qualsiasi comportamento visibile destinati al piccolo Andrea alla mamma. È lei che accompagna con le parole i gesti, i movimenti, le azioni del fare quotidiano, sia quando riferiti ad Andrea, sia quando riferiti alla casa, ai pasti principali, al bagnetto, alla nanna, al lavoro della mamma, ai parenti che ruotano intorno al nucleo familiare e ai momenti di gioco. Dall’altra parte Alberto esce e rientra dal lavoro, se è necessario fa un salto in farmacia o al supermercato, esce per la palestra, sempre sotto gli occhi di Andrea che deve accontentarsi di un ciao e di un affettuoso bacio “volante”. Andrea fissa la porta di ingresso dicendo “papà”. Quando gioca si avvicina alla porta di casa chiamandola “papà”, una olofrase che contiene un significato che va ben oltre il significato strettamente linguistico di “papà è uscito”, “papà torna”, “papà è fuori”, ecc.
Alberto un giorno ha scoperto che Andrea non vuole stare solo con lui appena la mamma si allontana. Il piccolo grida e piange.
Alberto ora apprende che suo figlio può anticipare la frustrazione di vederlo scomparire dietro la porta di casa, anche con un comportamento oppositivo come la rabbia, per giunta quando scompare al suo sguardo la madre, e che questa manifestazione frustrante è stata da lui interpretata come rifiuto di Andrea a trascorrere del tempo con lui.
Anche Alberto impara che i suoi movimenti (principalmente quello di uscire da quella porta per una ragione precisa) possono essere anticipati e spiegati. In pratica ora sa che suo figlio lo osserva e quindi sta attento ad accompagnare i suoi movimenti con le parole dando un senso a ciò che avviene e che avverrà davanti agli occhi del bambino: “ora papà mette il giaccone perché esce e va a lavoro” “papà torna presto, … tu mi aspetti? … E mi saluti? … E mi accompagni alla porta?”
Questo coinvolgimento ha dato la possibilità ad Andrea di creare il tempo dell’attesa motivata, di realizzare che il papà non scompare dietro una porta, ma va a lavoro o da qualche altra parte (un posto, un luogo, una parola spiegata) e che tornerà da lui perché l’ha verbalizzato.
Il linguaggio crea la realtà a cui il bimbo deve dare un senso compiuto. Crea il mondo che lo circonda, gli da spessore e senso cognitivo, oltre che continuità e coscienza temporale. Ma, più di ogni altra cosa, mette sullo stesso piano le figure genitoriali, la mamma ed il papà alla stessa stregua, entrambi impegnati a regolare l’affetto ed il comportamento, entrambi educanti e creatori della relazione significativa ed ognuno col proprio caratteristico modo e con i naturali accenti di genere.