Sono una Riminese innamorata della sua terra, una che usa il disegno come modo di pensare e di parlare oltre che di lavorare ma che parla comunque tanto… a volte persino troppo.
Sono una persona inquieta e contraddittoria, entusiasta e golosa di molte cose (tra cui le meringhe). Mi piace muovermi per link in rete come nella vita, mi incuriosiscono le buone idee, le persone e le loro storie. Grazie alla musica ho imparato ad emozionarmi “come si deve”.
Quando hai capito che l’illustrazione era la tua professione?
Piuttosto tardi rispetto a molti giovanissimi che intraprendono un percorso accademico già molto preciso. Io ho fatto il liceo scientifico, poi mi sono laureata in moda (indirizzo comunicazione) perché nella moda vedevo un mix ideale di linguaggi creativi, rigore aziendale, artigianato e innovazione. Ho iniziato a lavorare nella pubblicità e mi sono lanciata anche in una piccola avventura imprenditoriale. Sperimentando scrittura, ufficio stampa, pubbliche relazioni e grafica, il disegno (che ho sempre coltivato in autonomia con costanza) si è fatto strada e mi ha letteralmente chiamata prendendo sempre più spazio e diventando, nel giro di qualche anno, l’assoluto protagonista della mia vita da freelance. Sono illustratrice a tempo pieno da poco più di 6 anni.
Quando ho capito che mettere il disegno al servizio delle storie (fossero libri o campagne pubblicitarie) era quello che mi riusciva meglio e che amavo di più, ho studiato tanto, iniziato a frequentare festival e fiere, cercato di fare rete con i colleghi con gli strumenti che avevo (il web è stato ed è ancora fondamentale). Lavoro per l’editoria per bambini e ragazzi da appena un paio d’anni e ho ancora molto da imparare, ma è un settore che mi appassiona e che amo far dialogare con gli stimoli diversi che provengono più dalla mia formazione. Insomma, sono consapevole di essere felicemente in viaggio su un territorio insidioso, ma anche ricco di possibilità.
Il tuo linguaggio visivo è molto particolare, quali sono le tecniche e gli strumenti che usi quando disegni?
Mi piacciono gli strumenti che assecondano la rapidità del pensiero, che mi permettono di fissare l’idea in modo istintivo, conservandone la freschezza. Per questo nel tradizionale sono affezionata alle matite e alle chine, per questo lavoro tanto in digitale (una volta ritrovato il mio segno sulla cintiq o su strumenti come l’pad pro, ora dotati di una buona sensibilità). Questo non vuol dire che non sia necessario un tempo ragionato di esecuzione e, soprattutto, di progettazione (e ovviamente tutto varia a seconda del tipo di lavoro). Il digitale mi ha permesso di esplorare la contaminazione tra fotografia e disegno che ora è uno dei percorsi di ricerca che più mi contraddistinguono. In generale però mi piace fare esperimenti e spesso anche riprendere in mano una tecnica che non pratico da tanto o che non ho mai provato diventa la miccia che accende nuove idee o sblocca la testa.
Cosa pensi del tuo futuro da illustratrice?
Penso che vorrei strutturarlo nel modo più solido possibile per poter fare questo mestiere a lungo e con soddisfazione. Trasformare una passione in un mestiere implica fare i conti con tanta emotività e ridefinire gli equilibri passo dopo passo. Mi piace che sia un lavoro che mi permette di spaziare, di avere intorno tanta bellezza, di dialogare con interlocutori diversissimi. Non credo potrei mai abbandonare la parte di lavoro più legata alla pubblicità in favore della sola editoria e penso che trovare un modo per bilanciare le esperienze diverse e incanalare al meglio le forze sia al centro di ogni progetto di “autogestione creativa”. Penso anche che voglio continuare a definirmi come Suzy Lee definisce, appunto, un creativo: una persona che risolve problemi in modo nuovo e che si pone sempre domande per avere nuovi problemi da risolvere. In tutto questo il disegno è il mio linguaggio, la mia grammatica.
Nel tuo lavoro hai avuto modo di stringere collaborazioni particolari?
Ho avuto a che fare con realtà molto diverse, innescate anche in modi inaspettati. Forse per citarne una esemplare che mi ha sorpresa tantissimo ai miei esordi, posso parlare di quella con Dominc Miller, il chitarrista di Sting, per cui ho realizzato, in occasione dell’uscita di un suo album da solista, un video in stopmotion. Il contatto arrivò grazie a una band del mio territorio (i Nashville Trio) per cui avevo realizzato un prodotto simile e che lo avevano divulgato in rete. Trattandosi di una cover dei Police, in qualche modo era approdato anche tra i link di Miller che mi fece contattare dalla casa discografica. Ho passato ore a verificare in rete che non fosse uno scherzo. Il lavoro ancora gira sul web (il video si chiama “Catalan”) e c’è stato un bellissimo scambio, un segnale di fiducia che mi ha molto incoraggiata e mi ha fatto capire che potevo essere “vista” anche aldilà del mio piccolo nido da cui a malapena stavo muovendo i primi passi.
Perché illustrazione per bambini?
Tendo a non essere troppo rigida nel dare definizioni. Penso che le immagini abbiano un potere fortissimo e siano capaci di parlare, anche solo a livello empatico, ai piccoli tanto quanto agli adulti. Sarebbe però insensato non avere coscienza del pubblico a cui un certo progetto si rivolge, almeno in prima battuta. Dei bambini apprezzo innanzitutto l’innata curiosità e la capacità di meravigliarsi, per questo mi piace dialogare con loro, con i disegni e con le parole quando abbiamo occasione di incontrarci. Sono doti che cerco di coltivare e tenere in esercizio anche in me e sono felice quando vedo che anche certi adulti sono disposti ad abbandonarvisi ogni tanto.
Quali sono i tuoi punti di riferimento nel mondo dell’illustrazione? A chi ti ispiri?
Domanda che mi manda sempre in crisi, anche perché spesso pesco da autori e creativi che non necessariamente sono illustratori. Mi piace chi, oltre alle buone idee, sa lavorare con l’umorismo, garbato e intelligente. Tra questi per esempio, per citare due nomi recenti, mi piacciono tanto autori come Jean Jullien o Gilbert Legrand (quest’ultimo di grande ispirazione anche per la contaminazione tra realtà e disegno). Mi piacciono i creatori di mondi come Shaun Tan, ma anche quelli che all’abilità tecnica preferiscono la freschezza del segno come Quentin Blake.
Secondo te, in che modo un buon libro illustrato può aiutare un bambino o una famiglia?
Creando, innanzitutto, un’occasione di incontro e sviluppando vicinanza che è una cosa che accade anche con i bambini piccolissimi che ancora non sono in grado di comprendere la narrazione, ma godono di questo “contatto” se si svolge in modo sincero e partecipato. Ci sono poi libri che aiutano a introdurre magari temi più specifici su cui riflettere, ma tutto credo passi molto sempre attraverso lo scambio, la disponibilità ad ascoltare e ad abbandonare l’idea stereotipata che abbiamo delle cose per accogliere una diversità che spesso le immagini (anche solo per varietà stilistica) ci abituano a percepire.
Descrivici il tuo stile.
Questa domanda penso ci metta tutti molto in crisi, specialmente chi come me non aderisce a dei canoni visivi ricorrenti forti e varia spesso. Credo che ci sia molto più segno che colore, che ci sia umorismo, che ci sia spesso contaminazione tra più registri.
La giusta ricetta per una illustrazione efficace.
Le variabili sono tantissime, quindi non credo se ne possa individuare una soltanto. Penso che un’immagine sia in qualche modo una presa di posizione su un certo argomento (implicitamente espressa nella selezione di cosa disegnare e in che modo, con quanta intensità spingere su certe cose e non su altre) quindi credo che un’immagine efficace sia quella che ha qualcosa da dire o che lo dice in modo più incisivo di un’altra.
In questi anni, chi ti ha supportato e creduto nel lavoro che fai?
Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia in cui l’arte era di casa (mia mamma è pittrice), che non mi ha mai spinta verso qualcosa in particolare, ma mi ha sempre lasciata piuttosto libera di individuare la strada che volevo provare a percorrere. Mio marito mi ha sempre incoraggiata e lasciato lo spazio per esplorare, capire questo mestiere e capirmi di più. Il suo talento per la fotografia è stato la molla che ha avvicinato anche me a questo linguaggio. Nel tempo questo mestiere è stato un appiglio, un approdo e una bussola anche nei momenti di maggior burrasca. Oggi sono fortunata ad avere intorno la stima e l’affetto di colleghi che sono a volte diventati anche grandi amici, ad avere avuto occasione di sperimentare scambi di grandissima intensità, a ricevere segnali di piacevole vicinanza da parte di tante persone che, grazie alla rete, in qualche modo seguono quotidianamente il mio percorso.
Nell’ambito dell’editoria per l’infanzia, Angela Catrani (editor di Bacchilega Junior con cui ho pubblicato il mio primo libro foto-illustrato per bambini) è stata la prima a credere fortemente nel mio lavoro foto-illustrato ed è stata assolutamente determinante.
Se fossi libera da ogni vincolo… Cosa ti piacerebbe illustrare?
Ho avuto davvero molte occasioni di libertà fino ad ora, lavorando con persone che hanno dato fiducia a volte prima ancora alla mia sensibilità che al mio segno. Se potessi liberarmi da qualsiasi condizionamento di mercato e collocazione, mi piacerebbe disegnare qualcosa di erotico, apparentemente lontano dall’immaginario da cui ho attinto fino ad ora, ma non così tanto rispetto alle cose su cui mi piace fare ricerca ed esplorazioni. Magari prima o poi accadrà, ognuno ha le sue stanze segrete e, se non sono state aperte, vuol dire che ancora non si è raggiunta la giusta motivazione per farlo e farlo bene.
Il consiglio più utile che hai ricevuto.
Dà all’ansia il giusto peso: se l’ansia c’è è perché ci tieni, non ti agiteresti per qualcosa che non ti sta a cuore.
Non avere paura di chiedere se vuoi sapere.
Se il senso è fare le uova, fai le uova (questo è un piccolo gioco innescato durante un webinair sul mestiere di illustratore condotto con Davide Calì per i ragazzi di Ad un Tratto magazine… più che un consiglio ormai è un mantra bislacco che porta bene).
Che consiglio daresti a chi vuole iniziare quest’avventura?
Tenere la mano allenata (anche con una piccola cosa ogni giorno) e gli occhi bene aperti (che guardino ben aldilà della propria scrivania). Sviluppare la capacità di muoversi “fuori contesto” (che sia anche solo a livello di interessi) per abbattere la rigidità che spesso confondiamo per concentrazione o dedizione. Essere quindi, a volte, anche un po’ infedeli alla causa, ma con consapevole autodisciplina.